Pochi giorni fa, in previsione di una intervista televisiva (che poi ho registrato ieri mattina) in cui si sarebbe parlato della situazione del mare Adriatico, ho ripreso in mano il libro “Un altro mare” uscito l’anno scorso, a cura dell’Associazione “Tegnue di Chioggia”, della Regione Veneto e dell’Ispra.
Mi interessava soprattutto il capitolo intitolato “Un mare che cambia”, che riporta le testimonianze di naturalisti e pescatori – su come sono mutate le condizioni biologiche del nostro mare – ma anche le statistiche di pesca e anche lo “stato delle risorse biologiche” secondo il rapporto della SIBM (Società Italiana Biologia Marina) del 2008.
Come sta dunque, l’Adriatico? Male, direi.
In particolare il bacino centro-settentrionale, proprio quello più prezioso e delicato, con le sua acque basse ricche di nutrienti e rifugio di specie importanti, mostra una “situazione con notevoli segni di criticità”.
Tutti i dati, almeno dal 1948 ad oggi mostrano l’inesorabile declino dei pesci ossei (i “classici” pesci) e dei cefalopodi (seppie, calamari, polpi). Ancora più marcato il crollo delle presenze dei pesci cartilaginei (squali e razze), veramente a livelli disastrosi dai primi anni del 21esimo secolo ad oggi. Tra l’altro squali e razze sono in declino anche nel bacino meridionale, dove invece le cose vanno meglio per gli altri gruppi animali.
L’indagine prosegue anche con l’analisi di alcune specie importanti dal punto di vista commerciale e la conclusione è che “tutti gli stock ittici menzionati sono completamente sfruttati e prossimi al sovra-sfruttamento, ad eccezione della sardina, che è già effettivamente sovra-sfruttata”.
La pesca intensiva dunque, come causa principale di questo quadro nerissimo del bacino nord Adriatico. Ad essa si aggiungono e contribuiscono altre cause. L’eutrofizzazione e le conseguenti gravi carenze di ossigeno sul fondale (anossie bentoniche). L’utilizzo di attrezzi da pesca particolarmente dannosi: turbo-soffianti per la pesca delle vongole, reti a strascico, rapido (un tipo di strascico più piccola ma con una “rastrelliera metallica” sul davanti che ara il fondale). Tutti strumenti che lasciano la devastazione dove passano, con aree di fondale deserte e senza vita. Infine i prelievi di sabbia per i ripascimenti delle spiagge, anch’essi dannosissimi in quanto causa di distruzione di habitat importanti (le praterie di fanerogame, i letti di ostriche…).
I grafici delle statistiche di pesca sono da pianto. Linee in discesa ovunque. Gli sgombri sono passati dalle 600-1000 tonnellate negli anni ’50-‘’60 alle 100 attuali, le vongole dall 100.000 tonnellate dei primi anni ’80 alle 20.000 attuali, le razze dalle 120 tonnellate del primo dopo-guerra al quasi zero di oggi…
Da notare che nei grafici si nota come, nei primi anni subito dopo i conflitti mondiali, durante i quali praticamente non si pescava, le catture siano a livelli altissimi, a dimostrazione delle capacità di ripresa delle popolazioni, avendone le possibilità. Ma oggi molti livelli sono talmente bassi che forse non basterebbe nemmeno questo.
Che mare lasciamo ai nostri figli? C’è ancora tempo per fermare il trend? Ma soprattutto, c’è la volontà di farlo?
Mi interessava soprattutto il capitolo intitolato “Un mare che cambia”, che riporta le testimonianze di naturalisti e pescatori – su come sono mutate le condizioni biologiche del nostro mare – ma anche le statistiche di pesca e anche lo “stato delle risorse biologiche” secondo il rapporto della SIBM (Società Italiana Biologia Marina) del 2008.
Come sta dunque, l’Adriatico? Male, direi.
In particolare il bacino centro-settentrionale, proprio quello più prezioso e delicato, con le sua acque basse ricche di nutrienti e rifugio di specie importanti, mostra una “situazione con notevoli segni di criticità”.
Tutti i dati, almeno dal 1948 ad oggi mostrano l’inesorabile declino dei pesci ossei (i “classici” pesci) e dei cefalopodi (seppie, calamari, polpi). Ancora più marcato il crollo delle presenze dei pesci cartilaginei (squali e razze), veramente a livelli disastrosi dai primi anni del 21esimo secolo ad oggi. Tra l’altro squali e razze sono in declino anche nel bacino meridionale, dove invece le cose vanno meglio per gli altri gruppi animali.
L’indagine prosegue anche con l’analisi di alcune specie importanti dal punto di vista commerciale e la conclusione è che “tutti gli stock ittici menzionati sono completamente sfruttati e prossimi al sovra-sfruttamento, ad eccezione della sardina, che è già effettivamente sovra-sfruttata”.
La pesca intensiva dunque, come causa principale di questo quadro nerissimo del bacino nord Adriatico. Ad essa si aggiungono e contribuiscono altre cause. L’eutrofizzazione e le conseguenti gravi carenze di ossigeno sul fondale (anossie bentoniche). L’utilizzo di attrezzi da pesca particolarmente dannosi: turbo-soffianti per la pesca delle vongole, reti a strascico, rapido (un tipo di strascico più piccola ma con una “rastrelliera metallica” sul davanti che ara il fondale). Tutti strumenti che lasciano la devastazione dove passano, con aree di fondale deserte e senza vita. Infine i prelievi di sabbia per i ripascimenti delle spiagge, anch’essi dannosissimi in quanto causa di distruzione di habitat importanti (le praterie di fanerogame, i letti di ostriche…).
I grafici delle statistiche di pesca sono da pianto. Linee in discesa ovunque. Gli sgombri sono passati dalle 600-1000 tonnellate negli anni ’50-‘’60 alle 100 attuali, le vongole dall 100.000 tonnellate dei primi anni ’80 alle 20.000 attuali, le razze dalle 120 tonnellate del primo dopo-guerra al quasi zero di oggi…
Da notare che nei grafici si nota come, nei primi anni subito dopo i conflitti mondiali, durante i quali praticamente non si pescava, le catture siano a livelli altissimi, a dimostrazione delle capacità di ripresa delle popolazioni, avendone le possibilità. Ma oggi molti livelli sono talmente bassi che forse non basterebbe nemmeno questo.
Che mare lasciamo ai nostri figli? C’è ancora tempo per fermare il trend? Ma soprattutto, c’è la volontà di farlo?