È stato pubblicato davvero pochi giorni fa, un articolo molto interessante di Michael J. Moore, che lavora per la Woods Hole Oceanographic Institution, negli Stati Uniti.
Sentiamo, leggiamo e discutiamo spesso di come alcune nazioni, in particolare Giappone, Islanda e Norvegia, continuino a cacciare le balene. Le critichiamo ferocemente, e giustamente, ed esprimiamo giudizi negativi su questa pratica che riteniamo barbara, ed è condannata dal "tutto il mondo".
Cosa ci fa così indignare, della baleneria? Intanto, che incide su popolazioni di animali, appunto i grandi misticeti, che sappiamo essere stati portati sull'orlo dell'estinzione anche a causa di questa caccia indiscriminata, ma non solo da questa.
Inoltre ne facciamo anche una questione di etica e di benessere animale: la baleneria, molto più in passato, ma anche oggi, usa tecniche che recano sofferenze agli animali che vengono colpiti dagli arpioni. E che possono impiegare diverso tempo per morire, anche quando non sono catturati, ma fuggono portandosi l'arpione in corpo per giorni .
Abbiamo dunque una questione di conservazione e una legata alla morale. Ebbene l'autore ci dice chiaramente che dovremmo avere lo stesso tipo di preoccupazioni anche per altre attività che incidono allo stesso modo sulle grandi balene. Lui ne nomina diverse - collisioni con le imbarcazioni, inquinamento acustico, inquinamento chimico, eccetera - ma ne porta alla nostra attenzione una in particolare. Parla delle reti fisse, cioè quelle reti lasciate in mare distese a pescare, anche per giorni, e poi salpate periodicamente da grandi imbarcazioni. Noi sappiamo che queste reti, se piazzate in aree frequentate alle balene, hanno una certa probabilità (un'alta probabilità, in certe zone) di catturare le balene stesse, portandole spesso alla morte e comunque con effetti molto pesanti anche sul loro benessere.
I numeri che raccontano questo problema sono scioccanti e, per quanto mi riguarda, anche del tutto inaspettati. La mortalità di cetacei causata dalla cattura accidentale in strumenti da pesca ammonta probabilmente a centinaia di migliaia di individui all'anno. È in questo conto quasi sicuramente sono sottostimati i numeri relativi ai grandi cetacei, balene e balenottere; questi animali infatti spesso sono abbastanza forti e grandi da riuscire a liberarsi dalla rete, ma solo per allontanarsi con ampi lembi della stessa fermamente impigliati e attorcigliati a parti del loro corpo. Noi non troviamo queste balene impigliate nelle reti, ma molte di queste probabilmente vanno a morire da un'altra parte. Conoscere quante balene muoiono per questo è quasi impossibile: spesso le grandi balene vanno a fondo o muoiono al largo, in ogni caso lontano dai nostri occhi.
In uno studio condotto sulle coste orientali del Nord America su 323 individui di otto specie di grandi cetacei, la causa di morte più comune è risultata proprio l'intrappolamento nelle reti. In un lavoro pubblicato nel 2012 su documenti fotografici raccolti in Nord Atlantico dal 1980 al 2009 sulle balene franche, si è visto come l'incontro con le reti è praticamente una certezza nella vita di ogni balena. Su 626 individui ben 519 erano stati almeno una volta rimasti impigliati in una rete, ne portavano i segni, e di questi addirittura 306, due o più volte. L'incidenza del fenomeno colpisce più i giovani degli adulti.
Come si vede, per quello che riguarda il discorso della conservazione, i numeri sono più che preoccupanti.
E per quanto riguarda il benessere animale la situazione non è più allegra. Una balena impigliata in una rete e che se ne va trascinandosi dietro la rete stessa o parte di questa, può metterci fino a sei mesi a morire. Una balena cacciata o colpita da una nave muore in tempi molto più rapidi. Gli animali con pezzi di rete addosso possono provocarsi ferite profonde, ampie incisioni che non si chiudono mai ma anzi che con il tempo peggiorano, con le lenze e cordame che continuano a scavare pelle, grasso e muscoli. Inoltre, la balena consuma molta più energia dovendosi trascinare dietro questo peso ulteriore, e per di più con ferite e lesioni debilitanti; vedrà diminuire la sua forza e la sua energia lentamente, con il passare dei giorni, fino alla morte certa ma decisamente lenta.
Il merito di questo articolo, di questo "cibo per la mente", di Moore, è quello di farci aprire gli occhi su questioni che hanno impatti devastanti uguali se non peggiori a quelli causati dalla baleneria, ma che quasi mai saltano agli onori della cronaca, nè vengono messi in discussione da nazioni che non praticano questi tipi di pesca, e che non giudicano come invece facciamo noi rispetto alle nazioni baleniere.
Moore conclude che ogni tipo di caccia alle balene, e non solo la baleneria vera e propria, deve essere attentamente valutata e tenuta sotto controllo. È praticamente impossibile dargli torto.
Michael J. Moore (2014). Food for Thought.
How we all kill whales ICES Journal of Marine Science DOI: 10.1093/icesjms/fsu008