E’ abbastanza facile, riflettendoci un po’, capire quanto sia difficile compiere studi scientifici sugli squali. Come tutti gli animali marini, vivono in un ambiente che decisamente non è il nostro, e nel quale noi ci muoviamo a fatica e solo con l’ausilio di attrezzature, siano esse imbarcazioni o attrezzature subacquee, per esempio. Inoltre, se vogliamo fare il confronto rispetto allo studio di Cetacei e tartarughe marine, gli squali sono difficilissimi da avvistare in mare (non devono venire in superficie a respirare come delfini e tartarughe). Inoltre, avendo un intestino molto breve, quando muoiono, i gas della putrefazione non riescono a sollevarli in superficie, per cui di fatto, gli squali non si spiaggiano. Per avere campioni per la ricerca non resta allora che imbarcarsi con i pescatori, oppure “aspettare” i campioni stessi al mercato ittico. Resta comunque una enorme lacuna di studi di questo tipo, anche nelle frequentatissime coste alto-adriatiche.
Una piacevole sorpresa è stata dunque ricevere una tesi di laurea, della ora dr.ssa Caterina Lanfredi, dell’Università di Padova, sull’analisi del pescato di squali presso il mercato ittico di Chioggia.
Il lavoro è molto interessante e prende in considerazione il pescato di Elasmobranchi (squali e razze) dal 1945 al 2002, ottenuto dalla marineria di Chioggia. Un primo problema, lavorando con i mercati ittici, è la mancata definizione delle specie precise di squali pescati, che vengono invece raggruppati in categorie, con nomi comuni anche abbastanza curiosi. Nel lavoro in questione le categorie erano: cani, cani palombi, cani spinaroli, cani volpe, cani canesca (fino al 1996 questi primi cinque gruppi erano riuniti sotto il nome di asià) poi gatti e razze. Ci sono poi altre due categorie: gli smerigli e i cani spellati. Questi ultimi raggruppano tutti gli squali giunti al mercato privi di pelle (per eliminare l’odore tipico di ammoniaca). Come si vede, fare una ricerca scientifica usando queste categorie, non pare troppo semplice…
Al di là del folklore di queste nomenclature, interessanti sono invece i dati ottenuti. Soprattuto in alcune categorie, evidenti sono i cali nei quantitativi pescati. Per i “cani volpe”, cioè gli squali volpe, ad esempio, si passa dai 600-1000 kg alla fine degli anni ’90, a meno di 200 kg nel 2002.
Per i gatti (squali gattuccio e gattopardo) i valori sono in crescita dal 1945 (5 tonnellate) al 1970 (35 tonnellate). Poi la drammatica diminuzione, decisa e costante per attestarsi su valori di meno di mezza tonnellata, dal 1986 in poi. Valori preoccupanti anche per le razze, che passano dalle 10-14 tonnellate prima del 1950, alle 2 tonnellate del 2002.
Questi andamenti, di per di sé decisamente preoccupanti, sono almeno in parte mitigati se associati al cosiddetto sforzo di pesca (dati resi disponibili dal 1992). Infatti va rilevato come il numero di pescherecci della flotta chioggiotta, sia passato dalle 500 unità nel 1992 alle 380 del 2001. Questo calo è dovuto alle agevolazioni fiscali sul disarmo e dagli incentivi alla rinuncia dell’autorizzazione alla pesca professionale previsti dalla Comunità Europea. Resta comunque il fatto che la flessione evidente in alcune popolazioni di razze e squali adriatici non possa essere associata solo alla diminuzione del numero di pescherecci attivi.
Un ulteriore dato che emerge da questo lavoro è, ancora una volta, la lampante mancanza, e quindi stringente necessità, di un maggior numero di studi e ricerche di questo tipo.
Una piacevole sorpresa è stata dunque ricevere una tesi di laurea, della ora dr.ssa Caterina Lanfredi, dell’Università di Padova, sull’analisi del pescato di squali presso il mercato ittico di Chioggia.
Il lavoro è molto interessante e prende in considerazione il pescato di Elasmobranchi (squali e razze) dal 1945 al 2002, ottenuto dalla marineria di Chioggia. Un primo problema, lavorando con i mercati ittici, è la mancata definizione delle specie precise di squali pescati, che vengono invece raggruppati in categorie, con nomi comuni anche abbastanza curiosi. Nel lavoro in questione le categorie erano: cani, cani palombi, cani spinaroli, cani volpe, cani canesca (fino al 1996 questi primi cinque gruppi erano riuniti sotto il nome di asià) poi gatti e razze. Ci sono poi altre due categorie: gli smerigli e i cani spellati. Questi ultimi raggruppano tutti gli squali giunti al mercato privi di pelle (per eliminare l’odore tipico di ammoniaca). Come si vede, fare una ricerca scientifica usando queste categorie, non pare troppo semplice…
Al di là del folklore di queste nomenclature, interessanti sono invece i dati ottenuti. Soprattuto in alcune categorie, evidenti sono i cali nei quantitativi pescati. Per i “cani volpe”, cioè gli squali volpe, ad esempio, si passa dai 600-1000 kg alla fine degli anni ’90, a meno di 200 kg nel 2002.
Per i gatti (squali gattuccio e gattopardo) i valori sono in crescita dal 1945 (5 tonnellate) al 1970 (35 tonnellate). Poi la drammatica diminuzione, decisa e costante per attestarsi su valori di meno di mezza tonnellata, dal 1986 in poi. Valori preoccupanti anche per le razze, che passano dalle 10-14 tonnellate prima del 1950, alle 2 tonnellate del 2002.
Questi andamenti, di per di sé decisamente preoccupanti, sono almeno in parte mitigati se associati al cosiddetto sforzo di pesca (dati resi disponibili dal 1992). Infatti va rilevato come il numero di pescherecci della flotta chioggiotta, sia passato dalle 500 unità nel 1992 alle 380 del 2001. Questo calo è dovuto alle agevolazioni fiscali sul disarmo e dagli incentivi alla rinuncia dell’autorizzazione alla pesca professionale previsti dalla Comunità Europea. Resta comunque il fatto che la flessione evidente in alcune popolazioni di razze e squali adriatici non possa essere associata solo alla diminuzione del numero di pescherecci attivi.
Un ulteriore dato che emerge da questo lavoro è, ancora una volta, la lampante mancanza, e quindi stringente necessità, di un maggior numero di studi e ricerche di questo tipo.