Lei fa tante cose, tra le quali la giornalista più o meno free-lance, ma si guadagna da vivere studiando gli ambienti di acque dolci del suo paese. Poi, per suo interesse personale, e a sue spese, da nove anni (se non sbaglio) vola a Capo Verde a studiare le megattere. Cosa che lei racconta quasi come se fosse normale, ovvia; chi di noi non studia le megattere, di tanto in tanto?
Le ho fatto visitare la Fondazione Cetacea e il nostro centro Adria, siamo saliti in collina a trovare Mary G., a Oltremare, e visto che eravamo lì ci siamo intrufolati nell'esposizione (Hippocampus) di vasche di cavallucci marini dove nel buio e nel silenzio ci siamo lasciati rapire dalla magia e dal fascino di questi pesci straordinari.
Ma abbiamo soprattutto chiacchierato. E' bello trovare ogni tanto chi conosce questo lavoro e ne condivide soddisfazioni e difficoltà. Qualcuno al quale se dici che spesso ti viene voglia di mandare tutto a quel paese e trovarti "un lavoro normale" non ti guarda come se fossi pazzo.
Abbiamo anche registrato un'intervista per la radio svizzera. In realtà è stata un'ulteriore occasione per sederci a parlare di mare e di Adriatico, per più di un'ora, solo davanti a un microfono.
Ho risposto a ruota libera e anche divertito alle sue domande. I pesci dell'Adriatico, poi le tartarughe, gli squali, i delfini, i capodogli, e poi perchè questo mare è così particolare, e perchè soffre, soprattutto da trent'anni a questa parte, ferito gravemente dalle pugnalate inferte da noi stessi.
Purtroppo alle fine si finisce sempre lì: i danni causati dall'uomo all'ambiente naturale, le specie in pericolo e quelle che ormai semplicemente non ci sono più. Difficile, anzi impossibile, ormai parlare di ambienti e di specie animali senza parlare di conservazione.
Non ho idea di come sia venuta fuori l'intervista, siamo solo andati a ruota libera, saltando di qua e di là. Solo l'ultima domanda mi ha messo in difficoltà, e non è certo la prima volta che qualcuno me la pone: cosa può fare ognuno di noi, nel suo piccolo?
Questa è una domanda alla quale qualunque risposta suona come minimo banale. Come minimo.
Prima di tutto penso che ormai la situazione sia a un punto tale che, se non ci si muove a livelli più alti, istituzionali e anche e sopratutto transnazionali, quello che possiamo fare noi sia poco più che sistemarci in qualche modo la coscienza.
Sì, sì, serve tutto. I nostri comportamenti quotidiani devono tenere conto dell'emergenze ambientali che il pianeta affronta, e ognuno deva fare la sua parte, e io nel mio piccolo, oltre al mio lavoro, lo faccio anche nel privato.
Ma credo che quello che serve come singole persone sia invece più un cambiamento a livello mentale, culturale, e poi di conseguenza comportamentale. Ed è qui che la mia risposta diventa di solito pindarica e forse poco pratica. Forse banale. La mia parola chiave è rispetto. Comprendere che l'uomo è una specie TRA le altre e non SULLE altre. Questo concetto è spiegato benissimo per esempio nel libro "
Il dilemma della Sfinge" di Notarbartolo di Sciara e Schweitzer.
Noi e le altre specie dunque, sullo stesso livello, parte degli stessi equilibri. Imparare a rispettare questi equilibri e tutti gli elementi che li compongono è il presupposto per vivere il nostro ambiente: non sfruttarlo a nostro vantaggio, non modificarlo oltre il consentito (oltre gli equilibri), non dominarlo, ma VIVERLO. Semplicemnte esserne parte, ingranaggio fra gli ingranaggi, in un meccanismo in cui ogni componente è essenziale e in cui tutto è in equilibrio (sì, equilibrio è un'altra parola chiave per me).
Vedete come è facile banalizzare, rispondendo a una domanda come quella?