martedì 31 gennaio 2006

Racconti: Un anno fa, il capodoglio

Abbiamo un modo di dire, in Fondazione Cetacea, che usiamo spesso tra di noi. Quando qualcuno si deve allontanare per qualche giorno, per un congresso o per un periodo di ferie, per esempio, quasi sicuramente si sentirà dire: “vai pure tranquillo, ti chiamo solo se si spiaggia un capodoglio” oppure “vedrai che mentre non ci sei, si spiaggia un capodoglio” e via di questo passo.

I capodogli (in realtà di dovrebbe dire capidoglio), animali quasi mitici e circondati di un’aura di suggestivo mistero, al punto da essere degli animali totem anche nel serioso mondo dei ricercatori, i capodogli dicevamo, in Adriatico non ci sono proprio. Certo il mare non ha (quasi) barriere, e quindi qualche specie imprevista può sempre capitare anche da queste parti. Noi stessi abbiamo visto e segnalato delfini comuni, stenelle, grampi, persino pseudorche e la già leggendaria megattera del 4 agosto 2002. E abbiamo anche fatto una ricerca, presentata anche al 4° Convegno su Cetacei e Tartarughe marine, a Milano nel 1999, e che prima o poi pubblicheremo, sulla presenza storica del capodoglio in Adriatico. Dalla quale è risultato che i primi rapporti risalgono addirittura al 16° secolo con un esemplare descritto per l'Istria e raffigurato in un volume custodito al museo di Lubiana così come dai fondamentali lavori come quelli del del Brusina del 1889 per la Croazia e di Parona (1909) e Trois (1894) per l'Italia, risultano un totale di 48 esemplari fra spiaggiamenti e catture accidentali, dal 1555 al 1995.

Eccezionale, fra gli altri, risulta lo spiaggiamento di ben 7 esemplari a Marzocca (Ancona) nel 1938 mentre, perlomeno in Romagna, si narra ancora dell’esemplare spiaggiatosi a Rimini nel 1943, il quale fu “raccolto” e trasformato, da una ditta locale, in… saponette.

Sta di fatto che 48 esemplari in più di 400 anni indicano comunque una presenza a dir poco fuori dal comune per le basse acque dell’Adriatico. Da qui il nostro modo di dire. Ma a forza di ripeterlo…

E’ il 29 gennaio 2005, un sabato mattina. A Rimini, come un po’ in tutta l’Italia, nevica da due giorni. Sono i cosiddetti “giorni della merla”, i giorni più freddi dell’anno, dicono. Che sia vero o no, quel sabato mattina fa un freddo cane. Nonostante questo sto uscendo di casa con moglie e figlie per andare a vedere la spiaggia coperta di neve. Abbiamo già un piede fuori e suona il telefono. E’ la Capitaneria di Porto di Rimini che mi informa che a Viserbella, una frazione di Rimini, qualche chilometro a nord, pare si sia spiaggiato un capodoglio. Non credo neanche per un attimo che sia davvero un capodoglio ma parlandomi comunque di un animale di 7-8 metri non posso non andare a vedere; e poi dovevamo comunque “andare in spiaggia”…

Arriviamo sul posto, tira una tramontana che taglia la faccia; ci sono pochi curiosi. All’inizio non lo vedo nemmeno, poi mi indicano una massa informe in acqua, che si muove spostata avanti e indietro con il movimento delle onde. E’ una decina di metri più in là della linea della battigia, in un punto dove l’acqua arriva al polpaccio. Si capisce solo una cosa: che è grande. La parte dove dovrebbe essere la testa è però immersa nell’acqua e in parte anche piantata nella sabbia. Dico dovrebbe esserci la testa perché dall’altra parte dovrebbe esserci la coda… che però non c’è. C’è sì quello che sembra essere il peduncolo caudale, ma mancano i lobi della coda. Anche da lì quindi nessuna informazione; resta difficile, anzi impossibile dire cosa sia. Comincia ad arrivare gente sul posto, giornalisti, curiosi, il comandante Agostinelli della Capitaneria di Porto, l’amico e giornalista Roberto Venturini che ha in macchina degli stivali di gomma. Ce li infiliamo a turno e proviamo ad andare più vicino ma niente da fare, l’acqua è gelata e avvicinarsi vorrebbe dire farsela entrare negli stivali e quindi doversene poi andare. Rimanere bagnati su quella spiaggia innevata e spazzata dal vento non è molto attraente e decisamente non consigliabile. Le persone che passano e che vengono a vedere la bestia resistono pochi minuti e poi se ne vanno. Io non posso andare (e nemmeno i due marinai della Capitaneria che fanno da piantone, se è per questo). Mia moglie e le mie figlie si sono ben presto rinchiuse in macchina, poi qualcuno mi comunica che se ne sono andate “Facci sapere quando torni a casa, ciao ciao”.

Stiamo aspettando la ditta Hera, specializzata in diversi lavori, tra cui anche lo smaltimento dei rifiuti, che ha i mezzi per provare a spostare l’esemplare, ma ci vuole tempo. Tempo che scorre lento ma siamo comunque arrivati all’ora di pranzo. Non sappiamo quando arriveranno le macchine per muovere l’animale, così di nuovo resto lì e aspetto. Intanto riceve il cambio anche la mia “scorta” della Capitaneria (che poco prima mi erano andati a recuperare un caffè, orribile ma graditissimo). Il freddo è sempre meno sopportabile, ormai ce l’ho nelle ossa e meno male che un’anima buona (grazie, Pier!) mi presta una berretta di lana. Aspettiamo ancora e. quello che è peggio, ancora non sappiamo che animale sia!

Finalmente verso le 14 arrivano due Caterpillar: è il momento della verità. I mezzi entrano in acqua aggirano la massa che continua a muoversi pigramente con le onde. Finalmente le pale si spingono nella sabbia dietro la bestia e la sollevano; un attimo e poi la testa si disincaglia ed emerge: sì, è un capodoglio!

La batteria del telefonino è moribonda ma ci do dentro e chiamo i colleghi della Fondazione e mia moglie: è un capodoglio, per la miseria, un capodoglio! I caterpillar lo portano fuori dall’acqua e per un momento lo sollevano alto come un gigantesco trofeo di carne putrida.

Ora il problema è: dove lo portiamo e con cosa. Serve un camion adeguato (un “bilico” mi dicono si chiami). Salta fuori il nome della ditta RP Grassi e sono contento. So che loro possono trasportarlo ma so soprattutto che ci conoscono; nel piazzale del loro stabilimento (a S. Giustina, non lontano da Rimini) abbiamo sezionato e analizzato ormai una decina di delfini e persino un enorme pesce luna. Sono finalmente tranquillo, l’esemplare è “nostro”. Comunque, per sicurezza aspetto il camion, che finalmente verso le 15 lo carica e lo porta via. Fino al lunedì successivo non se ne parla più (e invece i quotidiani ne parleranno eccome!). Una biologa che a più riprese è venuta a curiosare si offre di darmi un passaggio; ringrazio di cuore. Mi sento come un personaggio dei cartoni animati, congelato in un blocco di ghiaccio. A casa mi aspetta un bagno caldo e mentre il mio sangue riprendere a circolare normalmente, ho un momento quasi catartico: sono in un bozzolo di calore e profumo dopo sette ore nel gelo e, soprattutto, ho avuto il mio capodoglio spiaggiato. Ma come in ogni buon cartone animato, non so cosa mi aspetta.

Il lunedì successivo siamo nel piazzale di cui parlavo prima. Il capodoglio è lì, una massa enorme e maleodorante di carne che aspetta il nostro lavoro. E un giovane maschio lungo 8,5 metri senza la coda e pesante 7,2 tonnellate. E’ evidente che sia morto da parecchio tempo, stimiamo un mese. Tra l’altro su internet avevo trovato che proprio un mese prima un capodoglio non troppo grosso era stato visto al largo di Caorle. Vista la frequenza di avvistamenti di capodogli in Adriatico, poteva senz’altro essere lui.

Cominciamo, armati di coltelli e di buona volontà, il lavoro, con lo scopo non solo di effettuare una necroscopia diagnostica e di raccogliere campioni, ma anche di ripulire il più possibile le ossa per conservare lo scheletro. E ci rendiamo subito conto di cosa ci aspetta. La pelle è durissima, come cuoio indurito dal sole e dal tempo e subito sotto ad essa uno strato di grasso compatto che impasta e lubrifica ogni cosa, centuplicando lo sforzo necessario per tagliare. Siamo in cinque e quando finiamo, dopo otto ore di lavoro, i “danni” provocati sono irrisori. Torniamo a casa, ricoperti di un odore nauseabondo che sarà una costante di tutti i giorni a venire, e con il morale sotto i tacchi. Rientro in casa e sulla strada per la doccia mi ferma il suono del telefono; mentre parlo con un giornalista che vuol sapere “di cosa è morto” rientrano le mie figlie che con la spietata sincerità dei bimbi, mi guardano disgustate e mi dicono “papà, ma sei tu che fai ‘sta puzza?”

Il lavoro proseguirà per altri quattro giorni e procede un po’ meglio di quanto pensassimo, dopo che abbiamo aumentato di molto il numero dei coltelli e che abbiamo capito che una persona deve essere continuamente dedicata solo alla pulitura e all’affilatura dei coltelli, che perdono il filo dopo pochi tagli. Arriva anche una sega elettrica di quelle a catena, modello film dell’orrore. Ma l’orrore è nostro quando ci accorgiamo che è inservibile, perché si impasta nel grasso e non taglia che la pelle. Si va avanti di coltelli, mentre l’odore peggiora e il personale della ditta che ci ospita ci chiede sempre più spesso quando finiamo. E chi lo sa?

Saranno quattro giorni faticosi e impegnativi, di sudore, odore nauseabondo, sangue (non nostro per fortuna) e viscere, ma anche di “cameratismo” e curiosità: nessuno di noi ha mai fatto un autopsia a un leviatano! Gli organi interni sono enormi e stupefacenti e l’immagine di Dino Scaravelli che letteralmente srotola decine e decine di metri di intestino è da cineteca. Prendiamo tra l’altro anche lo stomaco, che più tardi si rivelerà pieno solo di migliaia di becchi di calamari, la sua preda preferita (unica, in realtà).

La parte più difficile e sorprendente è la testa, il “capo di olio” da cui l’animale prende il nome. Alcune parti di essa sono realmente impenetrabili, con strati fitti e tenaci di fibre, muscoli e tendini e altri tessuti (soprattutto nella parte frontale) che non riconosciamo. Dopo averne “intaccata” solo metà decidiamo di rinunciare. Ma nella parte già scavata dobbiamo toglierci la soddisfazione di vedere quella sostanza delle meraviglie che tanto ha impegnato la fantasia dei passati ricercatori: lo spermaceti. Così cerchiamo di penetrare almeno in un punto in profondità e dopo la pelle, il grasso e le durissime fibre sottostanti, rimuoviamo un pacchetto di muscoli poderosi (muscoli nella testa, già questo è sorprendente) e arriviamo a qualcosa che somiglia proprio a una parete gommosa, come di una camera d’aria. La tagliamo e finalmente ecco colare letteralmente fuori questa sostanza così importante per il capodoglio. Lo spermaceti è un grasso oleoso che, cambiando la propria densità, “trasforma” l’enorme testa stessa del capodoglio alternativamente in una zavorra (che gli permette di sprofondare fino alle profondità abissali che frequenta) o in un galleggiante (che lo riporta in superficie). I primi scienziati, trovatisi di fronte a questa sostanza biancastra e densa, gli diedero il nome di quello che sembra: sperma. In effetti la somiglianza c’è, anche se quello che è uscito dal foro che abbiamo praticato cambiava aspetto e consistenza a seconda della profondità da cui scaturiva.

Il venerdì sera, ce l’abbiamo fatta, il lavoro è finito. Dell’esemplare restano le ossa più o meno ripulite e la testa solo per metà scarnificata. Ora tutto è stato seppellito, in attesa però di essere “riesumato” in modo da trovare un posto dove lasciare le ossa all’aria, per una pulizia accurata e “naturale” (nella foto ho in mano una vertebra cervicale). Lo scheletro sarà poi esposto, con ogni evenienza, al parco Oltremare, a fare compagnia alla scheletro della balenottera comune trovata nel 1990 a Cesenatico. La collezione di giganti si espande.

Un lavoro del genere richiede la collaborazione di un numero di persone ed enti essenziali per la sua riuscita. Un grazie di cuore allora, oltre ai colleghi Dino Scaravelli, Valeria Angelini e Stefano Furlati, anche alla Capitaneria di Porto di Rimini, alla ditte Hera spa, RP Grassi e Oltremare srl. E ancora a Mario Angelini, Giacomo Stanzani, Cristiano Alessandri, Naimj Gambi, Camilla Butti, Eleonora Mattoni, Massimo Bertozzi, Irene Salicini, Jacopo Masacci, Andrea Dall'Occo, Michele Calandrini, Corinne Bombardini, Marzia Righetti.

Già pubblicato su Cetacea Informa

mercoledì 25 gennaio 2006

News: una morte annunciata

Venerdì 20 gennaio scorso, un cetaceo particolare, un iperodonte si è reso protagonista di un fatto ancora più particolare: ha infatti lasciato le fredde, ma per lui consuete, acque del Mar del Nord, ed ha risalito per più di 60 kilometri quelle limacciose del Tamigi arrivando fino a Londra. La notizia ha fatto scalpore, e l’avventura del cetaceo è stata seguita da due ali di folla sempre più numerose sulle sponde del fiume, e poi anche dai mass-media che hanno riportato la notizia su giornali e televisioni.

L’esemplare ha tentato diverse volte di spiaggiarsi, sempre respinto indietro da volonterosi che gettatisi nelle acque gelide del fiume lo spingevano indietro. Tentativo apprezzabile, ma sbagliato. Se un cetaceo cerca di spiaggiarsi è proprio perché non ha più le forze nemmeno per sostenersi in acqua; per continuare a respirare in superficie, senza dover utilizzare energie che ormai non ha più, la soluzione è “appoggiarsi” a riva.

Questi segnali, uniti al fatto che comunque se un cetaceo lascia il mare e si infila in un fiume, un canale, un porto, un motivo c’è, facevano temere il peggio. E infatti poche ore dopo, proprio nel momento in cui l’animale è stato imbragato e sollevato dall’acqua in un disperato tentativo di recupero, è morto.

Quel venerdì, mentre la notizia si diffondeva, mi è stato chiesto più volte, dalla stampa, di esprimere un parere sulla vicenda, e su eventuali speranze di salvare l’iperodonte. Le risposta era sempre quella: se un cetaceo si comporta in quel modo, lasciando il suo ambiente per qualcosa di “alieno” e diverso come un fiume o un porto, ha dei problemi, di solito molto seri.

Questo è la prima considerazione che ci troviamo a formulare in casi del genere, e il pensiero non poteva non tornare al giugno scorso, quando, proprio sulla base di ragionamenti come questo, è iniziata l’operazione “Mary G.”. La storia è nota: il piccolo grampo, poi ribattezzato Mary, e sua madre, si erano venute a trovare all’interno del porto di Ancona, in mezzo ai pescherecci ormeggiati. La situazione ha più analogie con la storia dell’iperodonte di quanto non sembri. Ma non pensando a Mary che oggi, grazie al cielo e agli sforzi della Fondazione, è viva e vegeta, dopo 7 mesi di ospedalizzazione. Dobbiamo pensare alla mamma di Mary che, malata ha cercato riparo in un porto, come l’iperodonte l’ha cercato in un fiume, e che dopo nemmeno due giorni è morta, come è morto il cetaceo nel Tamigi.

Mary è l’eccezione, Mary è l’avvenimento che non ti aspetti, ma la cui salvezza si può comunque spiegare, non solo con l’enorme lavoro di veterinari, biologi e volontari, ma anche tenendo presente che Mary era in quel porto solo perché seguiva la sua mamma, da cui dipendeva in tutto e per tutto, essendo ancora una lattante. Mary probabilmente non era malata, e se lo era, lo era solo a causa degli ultimi giorni errabondi passati seguendo la madre in fin di vita.

Purtroppo l’esperienza maturata in 20 anni di recuperi e interventi su cetacei in difficoltà, ci ha insegnato che normalmente la triste fine che aspetta questi animali, è quella a cui è andata incontro anche “la balena” del Tamigi. E questo nonostante gli sforzi prodigati ogni volta da gruppi di intervento, improvvisati o meno.

Eppure è giusto continuare a provarci; intervenire su un delfino malato, sofferente è prima di tutto un dovere morale e un gesto di umanità, ed è importante continuare a farlo, anche facendo tesoro delle esperienze precedenti, pur se finite male.

Foto:
Peter Macdiarmid/Getty Images

giovedì 19 gennaio 2006

News: informazioni sui Cetacei

Il mondo scientifico che si occupa di cetacei, tartarughe marine e squali, è un ambiente ristretto, settoriale, dove poche persone fanno molto e in genere lo fanno nella logica del “coltivare il proprio orticello”. Le informazioni non escono o escono solo in certi casi. Così è molto difficile per tutti e soprattutto per gli studenti affamati di notizie, trovare le informazioni, anche su cose che dovrebbero essere di pubblico dominio come per esempio i convegni scientifici del settore, che dovrebbero trovare vantaggio da una maggiore diffusione della notizia che il convegno si svolge e dove: invece spesso è difficile, fuori dall’ambiente, venirlo a sapere.

Ecco allora qualche consiglio, semplice semplice. Oggi cominciamo con i Cetacei, poi nei prossimi giorni ci occupiamo anche di Tartarughe marine e Squali.

Cetacei

Ci sono due convegni europei all’anno sui Mammiferi marini. Quello dell’EEAM (http://eaam.org) cioè la European Association for Acquatic Mammals, e quello più importante e seguito dell’ECS (http://www.broekemaweb.nl/ecs) cioè la European Cetacean Society.
Questi convegni si spostano ogni anno in un luogo differente, e quest’anno quello dell’EAAM, è a Riccione, a marzo (http://www.parcoltremare.it/commonfiles/eaam/eaam.php). E’ un po’ costoso ma è un’occasione da non perdere; non si rifarà in Italia tanto presto.

Poi ci sono le liste di discussione. Ci si iscrive, gratuitamente, e via mail si entra in contatto con il mondo dei ricercatori europei o mondiali che tramite queste liste si scambiano informazioni, articoli, e tanto altro. Tra l’altro molto spesso vengono postati messaggi su possibilità di volontariato, internship e persino posti di lavoro (tutti all’estero) in ambito Cetacei. Potete anche solo leggere, senza “partecipare” mai. Semplicemente vi arrivano ogni giorno un po’ di messaggi e-mail (sempre in inglese, of corse), dalla lista, e voi vi rendete conto, in tempo reale di quello che succede nel mondo cetologico.

Le più importanti:

MARMAM (Lista mondiale sui mammiferi marini, super-consigliata)
Per iscriversi: scrivere a listserv@uvvm.uvic.ca con scritto nel corpo del messaggio:
subscribe MARMAM Nome Cognome.

ECS-talk (lista europea, buona).
Per iscriversi: andare su
http://www.jiscmail.ac.uk/lists/ECS-TALK.html
e cliccare su "Join or leave the list (or change settings)".

In ogni caso la rete è ormai un veicolo di informazioni straordinario. Passateci un po’ di tempo, facendo ricerche mirate e senza lasciarvi distrarre dal “minestrone internet”. Pian piano comincerete a raccoglierne i frutti.

domenica 15 gennaio 2006

Riflessioni: passioni

Non avete idea di quanta gente, soprattutto studenti, venga da me, mi telefoni o mi scriva cominciando sempre il discorso con "io amo i delfini", "io adoro i delfini", "ho un feeling con loro", insomma mi raccontano la loro passione per i delfini. Perchè poi sempre e solo i delfini mi riesce difficile da capire...
In ogni caso è l'uso della parola passione che mi sembra spesso fuori luogo. La passione per qualcosa non è un'infatuazione nè una moda.
In questo brano di un e-mail che ho ricevuto ecco un esempio di quello che io intendo per passione vera.

"Ho letto attentamente il suo blog e l'ho trovato davvero interessante. Anche se la mia conoscenza sui cetacei è ancora insufficiente, mi sono documentata sul tipo di cetaceo "Zifio" e se posso permettermi di dire il mio parere, ritengo che l'avvistamento da fatto il 29 dicembre, concordi con questa specie.
Ho stampato la fotografia del cetaceo sconosciuto, e confrontandola con le altre specie, essa corrisponde con la morfologia dello Zifio in quanto, come descrive la ricercatrice Slovena Darja, la pinna dorsale non è visibile sia per la sua piccola dimensione sia per la posizione arretrata. Ma la cosa più interessante è questa colorazione bianca del capo che è tipica dei maschi adulti e tipica di questa specie.
Nonostante ciò, bisognerebbe avere a disposizioni delle apparecchiature adatte per studiare la fotografia.
Ho apprezzato anche la descrizione della sua vita post-laurea e della fatica che ha fatto per arrivare a realizzare il suo sogno, credo che sia davvero un forte incoraggiamento per me che ho ancora un grande sogno da realizzare.
Infatti non mollerò mai!!
Mi congratulo per questo.
Sono ancora all'inizio, la voglia di conoscere tutto sugli animali marini è davvero tanta, mi creda. Lavoro come cameriera e pulisco appartamenti per pagarmi gli studi e per poter fare un giro ogni tanto sui battelli che avvistano i cetacei quì a Genova, ultimamente la soddisfazione che mi sono concessa, è quella di essermi regalata il brevetto subacqueo.

Stefania"

giovedì 12 gennaio 2006

News: Cetaceo misterioso (3)

L'amica e ricercatrice slovena Darja Ribaric, fondatrice di Vivamar che si occupa di ricerca sui Cetacei delle acque slovene e croate, conferma la nostra ipotesi che quello avvistato fosse proprio uno Zifio.

"Dear Marco,
Yes, I think you REALLY had a Cuvier's whale sigting!!! That's GREAT!!!
I think so, because the dorsal fin is not to be seen on Luca's photo, which means - it's so much at the back of the body (what is the case in this species). And before all - it's clearly seen the lighter pigmentation of the head, which is also very obvious on the picture!!!"

Traduzione:
"Caro Marco,
sì, penso proprio che abbiate VERAMENTE avuto un avvistamento di zifio!!! Grandioso!!! Penso questo perchè nelle foto di Luca non si vede la pinna dorsale, il che vuol dire che essa si trova molto indietro sul dorso (tipico di questa specie). E soprattutto si vede chiaramente la diversa pigmentazione della testa, che appare evidente nella foto!!!"

Il disegno dello zifio è di Stefania Bonomi

lunedì 9 gennaio 2006

Racconti: l'incontro con Jane Goodall


Ricordo di aver passato l’estate del 1992 sui libri, quando, fresco di laurea, ho “tentato” l’esame per Dottorato di Ricerca in etologia, un mio sogno nel cassetto (l’etologia, non il dottorato). Ricordo di avere letto quei libri (parecchi) con passione e vivo interesse e ancora oggi li sfoglio spesso. Quei libri citano, decine di volte, i lavori di Jane Goodall (o Jane Van Lawick-Goodall, quando era sposata con Hugo Van Lawick, suo primo marito). E chi ha o ha avuto a che fare con l’etologia non può non conoscere questo personaggio, la cui figura assume spesso i contorni della leggenda: non a caso un film sulla sua vita della National Geographic Society si intitola proprio “The Life and Legend of Jane Goodall”.

Il motivo di questo lo si può capire sfogliando il suo lungo curriculum: più di 60 articoli e una quindicina di libri pubblicati, 8 film (uno nominato all’Oscar), più di 40 premi vinti tra cui “Antropologa dell’anno” nel 1989, “Donna dell’anno” nel 1996 e la Medaglia “Benjamin Franklin” nel 2003 (ricevuta in passato, tra gli altri da Albert Einstein, Marie e Pierre Curie e Thomas Edison), 15 lauree “Honoris causa” in Europa, Stati Uniti e Canada; attualmente è Messaggero di Pace delle Nazioni Unite.

Così quando abbiamo ricevuto da Gloria Svampa del Museo di Zoologia di Roma l’invito a partecipare a un incontro con Jane Goodall a Roma, il 25 giugno 2003 ci siamo organizzati per non perdere l’evento: insieme a me Irene Bianchi (allora Coordinatore della Fondazione Cetacea) e Juli Bianchi (allora Curatrice Uccelli e Mammiferi Terresti di Oltremare).

L’incontro si svolgeva proprio nei locali del Museo di Zoologia ed è stato necessario approntare una seconda sala, collegata con la sala principale in videoconferenza, per poter accogliere in numerosi intervenuti. Molti di essi erano studenti, una piacevole sorpresa, alcuni dei quali appartenenti a scuole partecipanti al progetto Roots and Shoots.

L’ingresso della Goodall in sala è stata salutato con un lungo applauso e credo che molti abbiano provato, come me, l’emozione del momento. La ricercatrice, nonostante il suo aspetto semplice e tutto sommato sobrio, emana (è la parola giusta se volete credermi) una personalità e un carisma notevole, oltre a una evidente e contagiosa serenità d’animo.

L’intervento, preceduto dalle introduzioni del Direttore del Museo (dr. Manicastri) e dalla Direttrice del Jane Goodall Institute Italia (dr.ssa De Donno), si è svolto con la modalità dell’intervista: nel ruolo di intervistatore il giornalista Fabrizio Carbone. La chiacchierata di poco più di un’ora, è corsa via veloce fra ricordi dell’Africa, della sua vita avventurosa, dei suoi amati Chimps (gli scimpanzé) e i resoconti delle attuali attività dei Jane Goodall Institute sparsi ormai in 15 paesi del mondo.

Non sono mancati momenti addirittura suggestivi, come la presentazione dei suoi “amuleti” tra cui una scimmia di peluche regalatale tanti anni fa da un suo amico artista cieco (della quale lei racconta che porti fortuna a chiunque la accarezzi) e una foglia raccolta da una piccola piantina ancora viva in chilometri e chilometri di nulla lasciati dalla bomba atomica di Nagasaki.

Alla fine si è lasciato spazio anche alle domande dei ragazzi presenti, che un po’ emozionati le hanno chiesto di tutto, da come si diventa una “primatologa” alle questioni legate alla piaga del Bush Meat, il traffico di carni di animali selvatici.

Dopo la consegna di numerosi regali, Jane si è “concessa” per strette di mano, foto di rito e centinaia di autografi e dediche. La mia, che ora fa bella mostra di sé sulle pagine del suo libro “Le ragioni della speranza” (Ediz. Baldini Castoldi Dalai, 1999), che consiglio vivamente, recita così: to Marco, togheter we can make this a better world.

Già pubblicato su Cetacea Informa

giovedì 5 gennaio 2006

News: Cetaceo misterioso (2)

L'infaticabile Luca Amico ha continuato a lavorare sul materiale fotografico dell'avvistamento del 29 dicembre e ha trovato un'altra foto in cui, sebbene da lontano, si vede parzialmente la testa del misterioso cetaceo di cui ho scritto nel precedente post. Ecco la foto:

Quello che mi ha colpito della nuova foto è lo stacco netto fra il bianco della testa (non credo sia solo coperta d'acqua, credo sia proprio chiara) e lo scuro del resto del corpo. Questo può fare pensare ad uno Zifio (Ziphius cavirostris). Lo Zifio è regolarmente presente, seppur non comune, in tutto il Mediterraneo, ma non è mai stato avvistato in alto Adriatico.
I dubbi comunque restano...
Confrontate la foto con altre foto di zifio trovate sul web... che vi allego e fatemi sapere la vostra opinione.