Ricordo di aver passato l’estate del 1992 sui libri, quando, fresco di laurea, ho “tentato” l’esame per Dottorato di Ricerca in etologia, un mio sogno nel cassetto (l’etologia, non il dottorato). Ricordo di avere letto quei libri (parecchi) con passione e vivo interesse e ancora oggi li sfoglio spesso. Quei libri citano, decine di volte, i lavori di Jane Goodall (o Jane Van Lawick-Goodall, quando era sposata con Hugo Van Lawick, suo primo marito). E chi ha o ha avuto a che fare con l’etologia non può non conoscere questo personaggio, la cui figura assume spesso i contorni della leggenda: non a caso un film sulla sua vita della National Geographic Society si intitola proprio “The Life and Legend of Jane Goodall”.
Il motivo di questo lo si può capire sfogliando il suo lungo curriculum: più di 60 articoli e una quindicina di libri pubblicati, 8 film (uno nominato all’Oscar), più di 40 premi vinti tra cui “Antropologa dell’anno” nel 1989, “Donna dell’anno” nel 1996 e la Medaglia “Benjamin Franklin” nel 2003 (ricevuta in passato, tra gli altri da Albert Einstein, Marie e Pierre Curie e Thomas Edison), 15 lauree “Honoris causa” in Europa, Stati Uniti e Canada; attualmente è Messaggero di Pace delle Nazioni Unite.
Così quando abbiamo ricevuto da Gloria Svampa del Museo di Zoologia di Roma l’invito a partecipare a un incontro con Jane Goodall a Roma, il 25 giugno 2003 ci siamo organizzati per non perdere l’evento: insieme a me Irene Bianchi (allora Coordinatore della Fondazione Cetacea) e Juli Bianchi (allora Curatrice Uccelli e Mammiferi Terresti di Oltremare).
L’incontro si svolgeva proprio nei locali del Museo di Zoologia ed è stato necessario approntare una seconda sala, collegata con la sala principale in videoconferenza, per poter accogliere in numerosi intervenuti. Molti di essi erano studenti, una piacevole sorpresa, alcuni dei quali appartenenti a scuole partecipanti al progetto Roots and Shoots.
L’ingresso della Goodall in sala è stata salutato con un lungo applauso e credo che molti abbiano provato, come me, l’emozione del momento. La ricercatrice, nonostante il suo aspetto semplice e tutto sommato sobrio, emana (è la parola giusta se volete credermi) una personalità e un carisma notevole, oltre a una evidente e contagiosa serenità d’animo.
L’intervento, preceduto dalle introduzioni del Direttore del Museo (dr. Manicastri) e dalla Direttrice del Jane Goodall Institute Italia (dr.ssa De Donno), si è svolto con la modalità dell’intervista: nel ruolo di intervistatore il giornalista Fabrizio Carbone. La chiacchierata di poco più di un’ora, è corsa via veloce fra ricordi dell’Africa, della sua vita avventurosa, dei suoi amati Chimps (gli scimpanzé) e i resoconti delle attuali attività dei Jane Goodall Institute sparsi ormai in 15 paesi del mondo.
Non sono mancati momenti addirittura suggestivi, come la presentazione dei suoi “amuleti” tra cui una scimmia di peluche regalatale tanti anni fa da un suo amico artista cieco (della quale lei racconta che porti fortuna a chiunque la accarezzi) e una foglia raccolta da una piccola piantina ancora viva in chilometri e chilometri di nulla lasciati dalla bomba atomica di Nagasaki.
Alla fine si è lasciato spazio anche alle domande dei ragazzi presenti, che un po’ emozionati le hanno chiesto di tutto, da come si diventa una “primatologa” alle questioni legate alla piaga del Bush Meat, il traffico di carni di animali selvatici.
Dopo la consegna di numerosi regali, Jane si è “concessa” per strette di mano, foto di rito e centinaia di autografi e dediche. La mia, che ora fa bella mostra di sé sulle pagine del suo libro “Le ragioni della speranza” (Ediz. Baldini Castoldi Dalai, 1999), che consiglio vivamente, recita così: to Marco, togheter we can make this a better world.