Ma qualunque sia il destino di Mary, in mare o in vasca, questo non deve intaccare il valore di quanto è stato fatto. Tutte le esperienze del genere vissute in passato, ci hanno insegnato che un delfino che si spiaggia o che cerca un rifugio inusuale come un porto o un canale, ha infinitesime possibilità di cavarsela. Con Mary abbiamo visto che quell’infinitesima possibilità vale comunque la pena di giocarsela. Nel senso che ce la si può fare.
Anche se, forse, almeno per quanto mi riguarda, il senso di queste operazioni andrebbe rivisto, e ri-valutato con attenzione. Ecco cosa mi ha lasciato dentro tutta la storia Mary. Il dubbio, lo scricchiolare di alcune convinzioni. Ha senso davvero, spendere montagne di ore, fatica e tanti, tanti soldi per salvare chi la natura aveva deciso di escludere? Non ho una risposta chiara, ma almeno adesso la sto cercando e non mi sembra più così scontata.
Non mi sembra più così scontato ed indiscutibile che se si trova un delfino morente su una spiaggia, si deve fare di tutto, a tutti i costi, perché questo sopravviva. In passato ho cercato di mettere in fila le motivazioni che spingono a questo gesto, pensando che trovarne una valida o almeno plausibile risolvesse la questione. Ma non è così. La motivazione può essere ottima, ma subito dopo bisogna anche darle un senso: le due cose sono facce della stessa ma non sono identiche, e la seconda non deriva strettamente e automaticamente dalla prima.
Le motivazioni che spingono verso un intervento di recupero mi pare si possano ricondurre a tre categorie: motivi legati alla tutela e alla conservazione, motivi scientifici e motivi etici.
Il tentativo di salvare un esemplare di Cetaceo in difficoltà può apparire direttamente collegato con la conservazione, in realtà lo è, ma solo in maniera indiretta. Un esemplare spiaggiato non ha, dal punto di vista ecologico, nessun valore. Da una parte esso è stato, in qualche modo, rifiutato, eliminato dal suo ambiente naturale. Paradossalmente, intervenire per restituirlo al suo ambiente, può in questo senso apparire quasi come un intervento “contro natura”. In seconda battuta, a livello di conservazione della specie, o anche solo di una popolazione, il restituire al suo ambiente un solo esemplare non ha nessun effetto per la sopravvivenza della popolazione interessate, tanto meno della specie. Indirettamente però, l’emozione, l’interesse che questi interventi suscitano, possono avere importanti ripercussioni a livello di sensibilizzazione del pubblico verso certe tematiche. Quindi un apporto indiretto, appunto, alla causa della tutela delle specie.
Non troppo disgiunto da questo è il fatto che esemplari che forzatamente restano per periodi più o meno lunghi sotto l’osservazione del team, rappresentano una possibilità per ottenere informazioni (di tipo fisiologico, anatomico, comportamentale, eccetera) su essi stessi e sulla specie cui appartengono. Lo studio degli animali marini in genere, e anche dei Cetacei, è un’impresa difficoltosa anche e soprattutto per la mancanza di materiale su cui fare ricerca. E la ricerca scientifica, cioè la necessità di conoscere a fondo ogni caratteristica delle specie studiate, è un presupposto fondamentale per l’elaborazione e la strutturazione di progetti di conservazione solidi.
A tutto ciò si aggiungono le motivazioni etiche degli interventi sui Cetacei in difficoltà. In primo luogo ci si riferisce al fatto che, anche se in maniera molto indiretta, anche se in modo spesso nascosto e difficilmente indagabile, può succedere che lo spiaggiamento di un Cetaceo sia il risultato, magari indiretto si diceva, dell’interazione con una attività antropica (inquinamento di ogni tipo, interazioni con strumenti da pesca, disturbi in senso lato, collisioni, e altro). Ancora più forte è una motivazione morale semplicemente di compassione umana. Come esseri umani, e anche come persone che lavorano per la tutela di specie ed ambienti naturali, può risultare impossibile non intervenire cercando di fare il possibile affinché un animale sofferente non sia lasciato al proprio destino.
Riassumendo e semplificando in maniera forse brutale, diciamo allora che si interviene su un delfino spiaggiato per
1) ottenere un indiretto, e anche poco quantificabile per la verità, effetto per la causa della conservazione delle specie (tramite ricerca scientifica e sensibilizzazione) e
2) rispondere alla parte umana e compassionevole della nostra natura
3) Non nascondiamoci dietro a un dito e aggiungiamo pure che un terzo obbiettivo è molto meno etico ma pur sempre fondamentale. L’esposizione mediatica che un intervento come quello su Mary può regalare a un ente come la Fondazione Cetacea, rappresenta linfa vitale per ottenere l’attenzione da parte del pubblico e soprattutto di possibili sostenitori, finanziatori, sponsor.
Non è di poco conto ora cercare di capire in quale misura queste tre spinte all’azione agiscono nella scelta “interventista”. Perché un intervento di lunga degenza, e di successo, come quello della piccola Mary G., costa qualche decina di migliaia di euro, per non parlare dell’investimento di tempo, energie, oltrechè emozionale, che richiede. E si deve, brutalizzando ancora la questione, praticare la mai superata analisi costi/benefici. Restituire un delfino al mare, o anche solo alla vita, “vale” questo investimento? Ha senso spendere e spendersi tanto, per la vita di un essere vivente (vita che secondo natura sarebbe già cessata)?
Attenzione alla risposta, che non deve essere così scontata come può apparire. “Una vita non ha prezzo” è una risposta troppo semplicistica e manca di riflessione. Spendereste 30.000 euro per salvare un ratto, un pappagallo, un cervo volante? Perché è anche questo il problema: ci sono animali che valgono più di altri?
Mi ricordo quando nel 2002 siamo intervenuti su un grande pesce luna spiaggiato vivo a Riccione. Era un animale splendido, un enorme creatura che non sapevamo come aiutare. L’abbiamo spinto al largo dove è morto due giorni dopo, rispiaggiandosi. Abbiamo cercato di aiutarlo come potevamo, ma non ci è mai passato per l’anticamera del cervello di allestire una vasca di fortuna, o di riattivare un delfinario in disuso per provare a salvarlo. E allora, dove sta la discriminante? Perché un delfino sì e un pesce luna no?
Se Mary fosse stata un tonno avremmo mosso tutto la macchina che abbiamo avviato per Mary? E i tonni sono molto più minacciati in Adriatico e in Mediterraneo che non i grampi. Perché conservazione indiretta e sensibilizzazione qui non sono più argomenti validi? Per il pesce luna la “molla” della ricerca scientifica e delle importanti informazioni che avremmo potuto ottenere non è scattata (eppure di pesce luna ne sappiamo proprio poco), come mai?
Perché si legge spesso di mobilitazione di massa, si task force che intervengono (pensate al caso dell’iperodonte del Tamigi di qualche mese fa) solo quando si parla di Cetacei? La vita di un delfino vale più di quella di un branzino? Perché per alcune specie lasciamo che la “natura faccia il suo corso” e per altre no? Non sono certo qui per dare delle risposte, ma per fare in modo che certe domande vengano almeno poste.
All’ultimo convegno dell’European Association for Aquatic Mammals ci è stata raccontata la bella storia di Clyde, il grampo adulto curato per mesi in Florida e finalmente rilasciato in mare nel febbraio scorso. E non ho potuto fare a meno di notare, forse proprio a seguito di queste riflessioni che dal dopo Mary mi rincorrono, allo sproposito fra le forze e i mezzi messi in campo e il risultato ottenuto. Soldi, fatica, lavoro e impegno enormi, per un delfino in più in mare. E scusatemi se per il momento, non sono sicuro che ne valga la pena.