mercoledì 21 marzo 2007

Il ristorante delle Tartarughe

Abbiamo già ricordato più volte come ci sia un’intensa frequentazione di tartarughe marine, della specie Caretta caretta, in Adriatico. Questo flusso continuo di Tartarughe comuni che giungono da sud, cioè da mari più caldi dove anche si riproducono, è rappresentato da una popolazione di individui, in genere giovani o molto giovani, che vengono in queste acque principalmente a nutrirsi.
L’Adriatico rappresenta quindi una cosiddetta feeding area, cioè un territorio di alimentazione. E’ noto infatti come soprattutto la parte settentrionale di questo mare, sia un sistema molto ricco di nutrienti, in buona parte grazie al Po, che danno origine a una catena alimentare molto ricca, delle quali approfittano molte specie.
Inoltre le Tartarughe comuni sono, per loro natura, una specie decisamente opportunista, il che significa in pratica che mangiano un po’ di tutto, e che si adattano facilmente al tipo di ambiente, e di prede, che trovano. Il loro becco, detto ranfoteca, robusto e tagliente, permette loro di nutrirsi di prede che variano moltissimo come dimensioni e come forma.
Come sappiamo cosa mangiano le tartarughe che frequentano l’Adriatico? Questo tipo di studi vengono condotti nella maniera forse più… logica. Cioè si analizzano i contenuti degli stomaci delle tartarughe pescate o trovate morte in spiaggia. Un tipo di ricerca magari scomoda, ma che dà importanti informazioni.
Non ci sono purtroppo molti studi pubblicati, in particolare proprio nel nostro mare. Ma, ad esempio, un lavoro pubblicato nel 2000 da ricercatori croati mostra risultati curiosi. Esso si basava sullo studio dei contenuti stomacali di solo quattro esemplari di tartarughe rinvenute spiaggiate.
Ebbene, i resti trovati negli stomaci di questi esemplari, si potevano dividere in ben dieci categorie di prede diverse, a dimostrazione proprio di una dieta veramente opportunista.
La preda maggiormente presente è rappresentata, forse a sorpresa, da ricci di mare. Essi costituivano addirittura i due terzi (67%) del peso dei contenuti stomacali. Evidentemente le spine appuntite di questi animali non sono un problema per la bocca robusta e l’esofago “rinforzato” delle tartarughe.
La seconda preda preferita erano spugne, fra le quali spiccava come quantità, la cosiddetta Arancia di mare. Anche in questo caso, avere un becco capace di grattare e scrostare le rocce si rivela un utile strumento. Altre prede trovate in misura minore comprendevano Crostacei (soprattutto paguri), policheti (cioè vermi), e lumache. Non mancavano anche alghe e rifiuti raccolti sul fondo.
E’ bene ricordare che questa dieta, ricavata da uno studio in acque croate, nel caso di una specie che mangia di tutto come la tartaruga comune, non è rappresentativa della specie. Studi compiuti in altri mari darebbero diete molto diverse. D’altra parte mentre in Adriatico questi animali possono scendere sul fondo e alimentarsi facilmente letteralmente pascolando, in acque profonde la dieta cambia radicalmente, fino ad arrivare a mangiare anche solo pesci, in acque dove il fondo non è a portata di bocca.
A dimostrazione di questo, uno studio condotto dalla Fondazione Cetacea in collaborazione con l’Università di Bologna, sede di Cesenatico, su Tartarughe sempre adriatiche ma di sponda italiana. L'analisi è appena iniziata ma già i primi risultati mostrano differenze con quanto trovato dai ricercatori croati. Nei nostri esemplari maggiormente rappresentati sono crostacei e molluschi, quindi sempre animali di fondo ma più comuni su fondali sabbiosi e non rocciosi.
Vedremo, col proseguire delle indagini, se il menù diverrà maggiormente ricco.

martedì 13 marzo 2007

L'Europa e le pinne di squalo

Ho già scritto, qua e là, della pratica, crudele e insensata, del finning. Finning significa pescare gli squali per tagliare loro le pinne, che poi vanno sul mercato orientale per la tradizionale zuppa di pinne di pescecane (shark fin soup). Questa pratica è tremenda perchè consente anche a piccole imbarcazioni di fare grandi bottini, non dovendo riempire la barca con tante carcasse di squalo, ma mantenendo appunto a bordo solo le pinne (e spesso ributtando in mare lo squalo ancora vivo, destinato a morire sul fondo). Il mercato delle pinne "tira" molto forte, gli interessi economici, soprattutto per paesi poveri, sono molto allettanti e quindi la strage continua.
La Comunità Europea ha proibito nel 2003 la pratica del finning per tutte le imbarcazioni nelle proprie acque e per le imbarcazioni europee in tutto il mondo.
Purtroppo questi regolamenti, così come sono scritti, non sono efficaci.
La legge europea prevede che il rapporto fra il peso delle pinne e quello degli squali interi pescati sia del 5%. Attenzione però, ecco dove sta la fregatura: mentre negli Stati Uniti e in Canada questo rapporto è sul peso dell'animale eviscerato, in Europa è sull'animale intero. La differenza sembra minima ma è fondamentale. Usare il peso dell'animale intero significa di fatto consentire un maggiore peso di pinne. Consentire il 5% di pinne sul peso dell'intero animale, significa permettere il 10% o più di pinne sull'animale eviscerato, cioè il doppio di quanto stabilito, con criteri scientifici, in USA e in Canada.
Tra l'altro, molte altre nazioni, sull'esempio (pessimo) dell'Unione Europea, non specificano nei loro regolamenti se il 5% sia sul peso intero o eviscerato. Questo vanifica l'efficienza delle leggi anti-finning su scala globale.
Ancora, sul mercato in genere si vendono soprattuto la prima pinna dorsale, le pettorali, e il lobo inferiore della coda (e quindi non il lobo superiore della coda, le pelviche e eventualmente la seconda dorsale). Se il 5% sul peso eviscerato è quanto si ritiene sia il peso di tutte le pinne, prendendone solo una parte posso in pratica aumentare il numero di squali uccisi. Questo fatto è favorito dal regolamento europeo che consente di poter sbarcare pinne e carcasse anche in porti diversi (evitando così la diretta comparazione fra pinne tagliate e squali effettivamente pescati). Se volete saperne di più potete scarivarvi il documento "Shark Alert".

mercoledì 7 marzo 2007

Moby Dick in Adriatico

E’ il più affascinante, il più sbalorditivo, il meno “compreso” dei Cetacei viventi. E’ il capodoglio (Physeter macrocephalus). Il capodoglio è un animale totem, una specie che attira studi e ricerche in tutto il mondo e della cui biologia e fisiologia conosciamo ancora molto poco, soprattutto perché è talmente fuori dal comune, che in qualche modo “spiazza” i ricercatori.
In questa specie il maschio può raggiungere i 18 metri di lunghezza e 57 tonnellate di peso. La femmina, molto più piccola, può arrivare a 12.5 metri e pesare fino a 24 tonnellate.
Si trova nei mari temperati di tutti il mondo, compreso il Mediterraneo dove abita soprattutto il bacino occidentale. La forma del capodoglio è inconfondibile. Ha un capo enorme che costituisce fino a un terzo dell’intera lunghezza dell’animale. Lo sfiatatoio è unico e posizionato all’estremità sinistra del capo. La pinna dorsale è bassa, arrotondata e una serie di gibbosità minori la seguono, digradando verso la coda. Le pinne pettorali sono corte e larghe. La pinna caudale, di forma triangolare, è molto larga.
La componente principale della sua dieta è rappresentata da calamari, grandi e piccoli, che si trovano nelle zone adiacenti alla scarpata continentale.
Ma quello che sorprende di più è che il capodoglio è in grado di immergersi per un tempo superiore alle due ore e raggiungere i 3000 metri di profondità. E’ ovvio che per un animale del genere, abituato all’abisso sotto di sé, le acque dell’Adriatico non rappresentino una particolare attrattiva. In effetti in questo mare la specie è meno che occasionale. Eppure una ricerca storica svolta dalla Fondazione Cetacea in accordo anche con i Musei di Lubiana (Slovenia) e Zagabria (Croazia), qualcosa ha scoperto. Sono state ricercate negli archivi storici e nelle collezioni museali le segnalazioni di spiaggiamenti, avvistamenti e catture del grande cetaceo avvenute lungo le coste dell'Adriatico centrale e settentrionale. E ne sono state contate ben 48 a partire dal 1555.
I primi rapporti rintracciati risalgono addirittura al 16° secolo con un esemplare descritto per l'Istria e raffigurato in un volume custodito a Lubiana. Spiaggiamenti e avvistamenti singoli si rincorrono poi per tutto il 17 e 18 secolo. Si fanno poi decisamente notare la cattura di 6 esemplari a Cittanova (Croazia) nel 1853 e l’incredibile spiaggiamento di ben 7 esemplari a Marzocca (Ancona) del 1938. Molti, in generale, gli spiaggiamenti nelle Marche (Pesaro e Fermo più volte, poi Fano, Ancona, Porto San Giorgio, Ascoli). Come non ricordare poi il capodoglio spiaggiatosi a Rimini nel 1943, che la leggenda (?) vuole si stato trasformato in… saponette? E Rimini torna ancora protagonista per il più recente spiaggiamento della serie, l’esemplare di circa 9 metri ritrovato il 29 gennaio 2005.
La caccia industriale ha ridotto, nel XX secolo, di circa un terzo il numero di capodogli. Oggi i capodogli non sono più cacciati a scopo commerciale, o almeno non dovrebbero. I pericoli odierni sono rappresentati dalle reti derivanti e nel Mediterraneo, dall’intenso traffico di mezzi di linea ad alta velocità. Si stima che attualmente ci siano, nei mari del mondo, circa 1.900.000 capodogli.

martedì 27 febbraio 2007

Tartarughe in viaggio

Ormai da diversi mesi stiamo seguendo i viaggi in mare di alcune tartarughe marine rilasciate l’estate scorsa, con un trasmettitore sul dorso che, via satellite, ci comunica momento per momento la loro posizione (le potete vedere su seaturtle.org, nella pagina che vi si apre cliccate su "I accept" proprio in fondo). Questi dati fanno parte di uno studio più ampio sull’ecologia delle tartarughe marine in Adriatico, e permettono di capire qualcosa di più sulle loro abitudini e comportamenti. Può sembrare quasi superfluo questo tipo di studio, in quanto, essendo l’Adriatico un mare chiuso su tre lati, o questi animali restano qui oppure ovviamente se ne escono dall’unico passaggio possibile, cioè a sud. In realtà queste ricerche danno invece molte altre informazioni sulla biologia di questi animali: basta solo pensare al confronto fra la “rotta” tracciata e le temperature dell’acqua, o la direzione delle correnti, o la differenza di comportamento fra animali piccoli e grandi, e altro. Insomma, l’impiego di trasmettitori satellitari apre un campo di ricerca molto ampio e interessante.
Questi strumenti sono però relativamente giovani, e vengono utilizzati con frequenza solo da pochi anni, da quando cioè la tecnologia ha consentito di raggiungere due risultati fondamentali: la riduzione delle dimensioni (ora sono più piccoli di un pacchetto di sigarette) e l’abbassamento dei costi.
Ma gli spostamenti delle tartarughe in mare non sono invece una curiosità e un interesse così recente, e quindi prima dell’avvento di queste tecnologie si utilizzavano comunque strumenti per studiare le migrazioni delle tartarughe, sebbene molto più rudimentali: le targhette. Le targhette, o tags, possono essere di metallo o di plastica e vengono applicate alle zampe delle tartarughe pescate o spiaggiate, oppure alle femmine adulte che si spostano in spiaggia per deporre le uova. Se la tartaruga viene ritrovata, allora possiamo scoprire dove è finita. Quindi i tags danno informazioni molto semplici: dove è stata marcata, dove è stata ritrovata, quanto tempo è passato e di quanto, nel frattempo, la tartaruga è cresciuta (ammesso che venga misurata sia prima che dopo).
Ogni anno vengono marcate, in Mediterraneo, migliaia di tartarughe, e i ritrovamenti sono sull’ordine del 3-4 %. Uno sforzo enorme quindi, per un risultato tutto sommato limitato.
Abbiamo detto che uno dei momenti migliori per marcare le tartarughe è chiaramente quando queste escono per deporre le uova. In Grecia, che rappresenta il sito di deposizione più vicino all’Adriatico e il più importante del Mediterraneo, l’attività di marcatura è intensa. Negli ultimi anni sono state ben 35 le tartarughe trovate in Adriatico con targhette provenienti dalla Grecia. Di queste 27 sono state ripescate nelle acque croate, 2 in Montenegro e una in Slovenia. Questo è ovvio in quanto la corrente in Adriatico sale lungo le coste orientali (quindi dalla Grecia verso Albania, Montenegro e Dalmazia) e scende lungo le coste italiane. Le altre sono state ritrovate nel ravennate-ferrarese (4) e una a Cesenatico. Da notare che molti di questi ritrovamenti sono stati compiuti ad anni di distanza dal rilascio della tartaruga con due “record”: una tartaruga marcata nel 1996 a Kiparissia in Grecia e ritrovata nel 2004 a Porto Garibaldi e una marcata a Kifisa, sempre in Grecia, nel 1988 e ritrovata dopo nove anni, nel 1997, Punta Marina (RA).
Ci sono poi le tartarughe marcate in un programma di marcatura condotto dall’associazione Archè di Ferrara, in collaborazione con i pescatori di Porto Garibaldi (FE). Otto tartarughe di questo progetto sono state ritrovate, generalmente non troppo lontano dall’area di marcatura: Ravennate, Cesenatico, Rimini, Fano più due viaggi più lunghi: una a Roseto e una Porec, in Croazia.
Altri ritrovamenti interessanti sono quelli per esempio di una tartaruga marcata in Puglia e ritrovata ben cinque anni dopo a Cesenatico, e un esemplare marcato a Pirano e ritrovato cinque mesi dopo a Ravenna.
Come si vede una situazione molto fluida e anche difficile da indagare, ma ogni tartaruga ritrovata dopo essere stata marcata, aggiunge una microscopica tesserina al complesso puzzle della biologia di questi antichi Rettili marini.

martedì 20 febbraio 2007

Avvoltoi

Sono schifato. E incazzato. Sono tre o quattro giorni che sui giornali e sulle news in internet sono comparse decine di articoli che comunicano che la delfina Mary G. sta male, e che si sta lasciando morire perchè una delle sue addestratrici, Tamara, è scomparsa improvvisamente all'inizio di febbraio. Sono schifato perchè giornalisti superficiali, male informati, in malafede e senza scrupoli, hanno messo in relazione due notizie vere, ma inventando un collegamento che invece non esiste. E' vero, Mary G. non sta bene, ma i suoi problemi risalgono addirittura a dicembre, Tamara è scomparsa il 2 febbraio. E comunque attribuire a un animale comportamenti e "sentimenti" umani è una pura illazione e un giochino puerile.
Mi fa ancora più schifo che le interviste che smentiscono che ci sia un collegamento fra le due cose non siano state, volutamente, mandate in onda, per non smontare la notizia.
Mi fa schifo il cercare la notizia a sensazione ad ogni costo, anche quando la notizia non esiste. E' vomitevole questo giocare con i sentimenti, non solo di chi è coinvolto in prima persona in questa vicenda, ma anche con quelli del pubblico, che si commuovono e si sentono mossi a compassione, venendo "guidati" a fare connesioni e collegamenti che nella realtà non esistono.
Questi sono avvoltoi, sono sciacalli di una cosa che chiamano informazione, ma che invece è solo "spettacolo", disgustoso spettacolo.

venerdì 9 febbraio 2007

Delfini sloveni

La Slovenia si affaccia sulla parte più settentrionale dell’Adria- tico, con uno stretto lembo di terra che si sviluppa su appena 46 km di costa. Studiare i delfini “sloveni” non è possibile, nel senso che non esistono, ovviamente, delfini legati a un’area di mare così ristretta ma semmai animali che si muovono in un areale più ampio (golfo di Trieste, Croazia settentrionale) che comprende anche le acque nazionali slovene.
Eppure, sebbene in un pezzetto di costa così limitato, ben due associazioni slovene si stanno impegnando nello studio e nell’osservazione in mare dei delfini di quell’area. Esse sono l’associazione Vivamar (che è stata anche partner del progetto internazionale guidato da Provincia di Rimini e Fondazione Cetacea chiamato Adria-Watch) e il gruppo Morigenos.
I dati resi noti da Vivamar provengono da uno studio condotto dal 2001 al 2005 in un’area di circa 140 km quadrati comprendenti tutte le acque slovene, la parte più meridionale del Golfo di Trieste e l’area settentrionale della penisola istriana. La ricerca à stata realizzata sia utilizzando una piccola imbarcazione (5,11 m) per osservazioni dirette, sia dei questionari distribuiti a pescatori, diportisti e autorità. In quell’area gli avvistamenti sono abbastanza “facili” e le osservazioni sono risultate molto più concentrate nel periodo primavera-estate (82%). Interessante anche, nei mesi caldi estivi, la distribuzione oraria degli avvistamenti: solo il 2% dei delfini si è fatto vedere nella fascia dalle 11 alle 18, tutti gli altri o nel primo mattino o nel tardo pomeriggio/sera.
I gruppi mostravano una composizione molto variabile andando dall’avvistamento di un animale singolo, fino a gruppi di 40 individui.
Il lavoro dell’altra associazione, Morigenos, è iniziato un anno dopo, nel 2002 e i dati disponibili arrivano anche in questo caso al 2005. Le osservazioni sono state fatte tramite imbarcazioni, oppure anche direttamente da terra, per circa due mesi all’anno.
Questa attività ha permesso loro di “incontrare” i delfini per 51 volte e 55 esemplari sono stati foto-identificati: cioè, grazie a foto particolareggiate della pinna dorsale, sono stati distinti 55 soggetti, ora catalogati e dunque sempre riconoscibili. Questa tecnica è fondamentale per studiare le popolazioni di delfini, in quanto consente di valutare diverse cose di un gruppo: se gi animali avvistati sono sempre gli stessi, se un particolare delfino sta sempre insieme ad altri animali “amici” o se il gruppo è fluido, quale è la storia riproduttiva di una femmina, se il gruppo accoglie animali nuovi o se perde esemplari che se ne vanno, etc.
In questo caso per esempio si sono messi a confronto i 55 delfini riconoscibili, con i 238 già foto-identificati nelle acque croate da precedenti studi e si visto che… non ci sono corrispondenze. In pratica nessuno dei delfini identificati in Slovenia era già stato visto nelle acque croate più settentrionali. Questo è molto strano in quanto risulterebbe che siamo in presenza di due popolazioni locali, che vivono separate tra loro. Un altro punto interrogativo sul quale solo future ricerche potranno gettare luce.

(La foto è di Luca Amico)

sabato 3 febbraio 2007

Ciao Tamara

Ieri sera è morta una amica. Nel modo più assurdo, inspiegabile, sconcertante. Uccisa. Da un povero, maledetto, pazzo. Non ci sono parole, solo silenzioso dolore e domande senza risposta. Ti ricordo così, come ti ho sempre vista da quando ti conosco, felice, con i tuoi delfini. Ciao Tami.