martedì 31 gennaio 2006

Racconti: Un anno fa, il capodoglio

Abbiamo un modo di dire, in Fondazione Cetacea, che usiamo spesso tra di noi. Quando qualcuno si deve allontanare per qualche giorno, per un congresso o per un periodo di ferie, per esempio, quasi sicuramente si sentirà dire: “vai pure tranquillo, ti chiamo solo se si spiaggia un capodoglio” oppure “vedrai che mentre non ci sei, si spiaggia un capodoglio” e via di questo passo.

I capodogli (in realtà di dovrebbe dire capidoglio), animali quasi mitici e circondati di un’aura di suggestivo mistero, al punto da essere degli animali totem anche nel serioso mondo dei ricercatori, i capodogli dicevamo, in Adriatico non ci sono proprio. Certo il mare non ha (quasi) barriere, e quindi qualche specie imprevista può sempre capitare anche da queste parti. Noi stessi abbiamo visto e segnalato delfini comuni, stenelle, grampi, persino pseudorche e la già leggendaria megattera del 4 agosto 2002. E abbiamo anche fatto una ricerca, presentata anche al 4° Convegno su Cetacei e Tartarughe marine, a Milano nel 1999, e che prima o poi pubblicheremo, sulla presenza storica del capodoglio in Adriatico. Dalla quale è risultato che i primi rapporti risalgono addirittura al 16° secolo con un esemplare descritto per l'Istria e raffigurato in un volume custodito al museo di Lubiana così come dai fondamentali lavori come quelli del del Brusina del 1889 per la Croazia e di Parona (1909) e Trois (1894) per l'Italia, risultano un totale di 48 esemplari fra spiaggiamenti e catture accidentali, dal 1555 al 1995.

Eccezionale, fra gli altri, risulta lo spiaggiamento di ben 7 esemplari a Marzocca (Ancona) nel 1938 mentre, perlomeno in Romagna, si narra ancora dell’esemplare spiaggiatosi a Rimini nel 1943, il quale fu “raccolto” e trasformato, da una ditta locale, in… saponette.

Sta di fatto che 48 esemplari in più di 400 anni indicano comunque una presenza a dir poco fuori dal comune per le basse acque dell’Adriatico. Da qui il nostro modo di dire. Ma a forza di ripeterlo…

E’ il 29 gennaio 2005, un sabato mattina. A Rimini, come un po’ in tutta l’Italia, nevica da due giorni. Sono i cosiddetti “giorni della merla”, i giorni più freddi dell’anno, dicono. Che sia vero o no, quel sabato mattina fa un freddo cane. Nonostante questo sto uscendo di casa con moglie e figlie per andare a vedere la spiaggia coperta di neve. Abbiamo già un piede fuori e suona il telefono. E’ la Capitaneria di Porto di Rimini che mi informa che a Viserbella, una frazione di Rimini, qualche chilometro a nord, pare si sia spiaggiato un capodoglio. Non credo neanche per un attimo che sia davvero un capodoglio ma parlandomi comunque di un animale di 7-8 metri non posso non andare a vedere; e poi dovevamo comunque “andare in spiaggia”…

Arriviamo sul posto, tira una tramontana che taglia la faccia; ci sono pochi curiosi. All’inizio non lo vedo nemmeno, poi mi indicano una massa informe in acqua, che si muove spostata avanti e indietro con il movimento delle onde. E’ una decina di metri più in là della linea della battigia, in un punto dove l’acqua arriva al polpaccio. Si capisce solo una cosa: che è grande. La parte dove dovrebbe essere la testa è però immersa nell’acqua e in parte anche piantata nella sabbia. Dico dovrebbe esserci la testa perché dall’altra parte dovrebbe esserci la coda… che però non c’è. C’è sì quello che sembra essere il peduncolo caudale, ma mancano i lobi della coda. Anche da lì quindi nessuna informazione; resta difficile, anzi impossibile dire cosa sia. Comincia ad arrivare gente sul posto, giornalisti, curiosi, il comandante Agostinelli della Capitaneria di Porto, l’amico e giornalista Roberto Venturini che ha in macchina degli stivali di gomma. Ce li infiliamo a turno e proviamo ad andare più vicino ma niente da fare, l’acqua è gelata e avvicinarsi vorrebbe dire farsela entrare negli stivali e quindi doversene poi andare. Rimanere bagnati su quella spiaggia innevata e spazzata dal vento non è molto attraente e decisamente non consigliabile. Le persone che passano e che vengono a vedere la bestia resistono pochi minuti e poi se ne vanno. Io non posso andare (e nemmeno i due marinai della Capitaneria che fanno da piantone, se è per questo). Mia moglie e le mie figlie si sono ben presto rinchiuse in macchina, poi qualcuno mi comunica che se ne sono andate “Facci sapere quando torni a casa, ciao ciao”.

Stiamo aspettando la ditta Hera, specializzata in diversi lavori, tra cui anche lo smaltimento dei rifiuti, che ha i mezzi per provare a spostare l’esemplare, ma ci vuole tempo. Tempo che scorre lento ma siamo comunque arrivati all’ora di pranzo. Non sappiamo quando arriveranno le macchine per muovere l’animale, così di nuovo resto lì e aspetto. Intanto riceve il cambio anche la mia “scorta” della Capitaneria (che poco prima mi erano andati a recuperare un caffè, orribile ma graditissimo). Il freddo è sempre meno sopportabile, ormai ce l’ho nelle ossa e meno male che un’anima buona (grazie, Pier!) mi presta una berretta di lana. Aspettiamo ancora e. quello che è peggio, ancora non sappiamo che animale sia!

Finalmente verso le 14 arrivano due Caterpillar: è il momento della verità. I mezzi entrano in acqua aggirano la massa che continua a muoversi pigramente con le onde. Finalmente le pale si spingono nella sabbia dietro la bestia e la sollevano; un attimo e poi la testa si disincaglia ed emerge: sì, è un capodoglio!

La batteria del telefonino è moribonda ma ci do dentro e chiamo i colleghi della Fondazione e mia moglie: è un capodoglio, per la miseria, un capodoglio! I caterpillar lo portano fuori dall’acqua e per un momento lo sollevano alto come un gigantesco trofeo di carne putrida.

Ora il problema è: dove lo portiamo e con cosa. Serve un camion adeguato (un “bilico” mi dicono si chiami). Salta fuori il nome della ditta RP Grassi e sono contento. So che loro possono trasportarlo ma so soprattutto che ci conoscono; nel piazzale del loro stabilimento (a S. Giustina, non lontano da Rimini) abbiamo sezionato e analizzato ormai una decina di delfini e persino un enorme pesce luna. Sono finalmente tranquillo, l’esemplare è “nostro”. Comunque, per sicurezza aspetto il camion, che finalmente verso le 15 lo carica e lo porta via. Fino al lunedì successivo non se ne parla più (e invece i quotidiani ne parleranno eccome!). Una biologa che a più riprese è venuta a curiosare si offre di darmi un passaggio; ringrazio di cuore. Mi sento come un personaggio dei cartoni animati, congelato in un blocco di ghiaccio. A casa mi aspetta un bagno caldo e mentre il mio sangue riprendere a circolare normalmente, ho un momento quasi catartico: sono in un bozzolo di calore e profumo dopo sette ore nel gelo e, soprattutto, ho avuto il mio capodoglio spiaggiato. Ma come in ogni buon cartone animato, non so cosa mi aspetta.

Il lunedì successivo siamo nel piazzale di cui parlavo prima. Il capodoglio è lì, una massa enorme e maleodorante di carne che aspetta il nostro lavoro. E un giovane maschio lungo 8,5 metri senza la coda e pesante 7,2 tonnellate. E’ evidente che sia morto da parecchio tempo, stimiamo un mese. Tra l’altro su internet avevo trovato che proprio un mese prima un capodoglio non troppo grosso era stato visto al largo di Caorle. Vista la frequenza di avvistamenti di capodogli in Adriatico, poteva senz’altro essere lui.

Cominciamo, armati di coltelli e di buona volontà, il lavoro, con lo scopo non solo di effettuare una necroscopia diagnostica e di raccogliere campioni, ma anche di ripulire il più possibile le ossa per conservare lo scheletro. E ci rendiamo subito conto di cosa ci aspetta. La pelle è durissima, come cuoio indurito dal sole e dal tempo e subito sotto ad essa uno strato di grasso compatto che impasta e lubrifica ogni cosa, centuplicando lo sforzo necessario per tagliare. Siamo in cinque e quando finiamo, dopo otto ore di lavoro, i “danni” provocati sono irrisori. Torniamo a casa, ricoperti di un odore nauseabondo che sarà una costante di tutti i giorni a venire, e con il morale sotto i tacchi. Rientro in casa e sulla strada per la doccia mi ferma il suono del telefono; mentre parlo con un giornalista che vuol sapere “di cosa è morto” rientrano le mie figlie che con la spietata sincerità dei bimbi, mi guardano disgustate e mi dicono “papà, ma sei tu che fai ‘sta puzza?”

Il lavoro proseguirà per altri quattro giorni e procede un po’ meglio di quanto pensassimo, dopo che abbiamo aumentato di molto il numero dei coltelli e che abbiamo capito che una persona deve essere continuamente dedicata solo alla pulitura e all’affilatura dei coltelli, che perdono il filo dopo pochi tagli. Arriva anche una sega elettrica di quelle a catena, modello film dell’orrore. Ma l’orrore è nostro quando ci accorgiamo che è inservibile, perché si impasta nel grasso e non taglia che la pelle. Si va avanti di coltelli, mentre l’odore peggiora e il personale della ditta che ci ospita ci chiede sempre più spesso quando finiamo. E chi lo sa?

Saranno quattro giorni faticosi e impegnativi, di sudore, odore nauseabondo, sangue (non nostro per fortuna) e viscere, ma anche di “cameratismo” e curiosità: nessuno di noi ha mai fatto un autopsia a un leviatano! Gli organi interni sono enormi e stupefacenti e l’immagine di Dino Scaravelli che letteralmente srotola decine e decine di metri di intestino è da cineteca. Prendiamo tra l’altro anche lo stomaco, che più tardi si rivelerà pieno solo di migliaia di becchi di calamari, la sua preda preferita (unica, in realtà).

La parte più difficile e sorprendente è la testa, il “capo di olio” da cui l’animale prende il nome. Alcune parti di essa sono realmente impenetrabili, con strati fitti e tenaci di fibre, muscoli e tendini e altri tessuti (soprattutto nella parte frontale) che non riconosciamo. Dopo averne “intaccata” solo metà decidiamo di rinunciare. Ma nella parte già scavata dobbiamo toglierci la soddisfazione di vedere quella sostanza delle meraviglie che tanto ha impegnato la fantasia dei passati ricercatori: lo spermaceti. Così cerchiamo di penetrare almeno in un punto in profondità e dopo la pelle, il grasso e le durissime fibre sottostanti, rimuoviamo un pacchetto di muscoli poderosi (muscoli nella testa, già questo è sorprendente) e arriviamo a qualcosa che somiglia proprio a una parete gommosa, come di una camera d’aria. La tagliamo e finalmente ecco colare letteralmente fuori questa sostanza così importante per il capodoglio. Lo spermaceti è un grasso oleoso che, cambiando la propria densità, “trasforma” l’enorme testa stessa del capodoglio alternativamente in una zavorra (che gli permette di sprofondare fino alle profondità abissali che frequenta) o in un galleggiante (che lo riporta in superficie). I primi scienziati, trovatisi di fronte a questa sostanza biancastra e densa, gli diedero il nome di quello che sembra: sperma. In effetti la somiglianza c’è, anche se quello che è uscito dal foro che abbiamo praticato cambiava aspetto e consistenza a seconda della profondità da cui scaturiva.

Il venerdì sera, ce l’abbiamo fatta, il lavoro è finito. Dell’esemplare restano le ossa più o meno ripulite e la testa solo per metà scarnificata. Ora tutto è stato seppellito, in attesa però di essere “riesumato” in modo da trovare un posto dove lasciare le ossa all’aria, per una pulizia accurata e “naturale” (nella foto ho in mano una vertebra cervicale). Lo scheletro sarà poi esposto, con ogni evenienza, al parco Oltremare, a fare compagnia alla scheletro della balenottera comune trovata nel 1990 a Cesenatico. La collezione di giganti si espande.

Un lavoro del genere richiede la collaborazione di un numero di persone ed enti essenziali per la sua riuscita. Un grazie di cuore allora, oltre ai colleghi Dino Scaravelli, Valeria Angelini e Stefano Furlati, anche alla Capitaneria di Porto di Rimini, alla ditte Hera spa, RP Grassi e Oltremare srl. E ancora a Mario Angelini, Giacomo Stanzani, Cristiano Alessandri, Naimj Gambi, Camilla Butti, Eleonora Mattoni, Massimo Bertozzi, Irene Salicini, Jacopo Masacci, Andrea Dall'Occo, Michele Calandrini, Corinne Bombardini, Marzia Righetti.

Già pubblicato su Cetacea Informa

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